giovedì 28 febbraio 2013

Ricercatori statunitensi hanno dimostrato che cantare fa bene

Risultato di una ricerca scientifica condotta dalla dottoressa Lauren Stewart (Università di Londra).

Il risultato di una ricerca scientifica condotta dalla dottoressa Lauren Stewart (Università di Londra)

“Canta che ti passa”, recita un noto motto popolare ed ora si è scoperto in modo inequivocabile e scientifico che quel motto corrisponde a verità. Cantare fa bene al corpo e alla mente, se poi si pensa che non ci vuole nulla, che non costa nulla, allora si capisce bene come questa libera e spontanea capacità che tutti abbiamo, sia stata davvero sottovalutata. Va da sé che non c’è bisogno di una bella voce per cantare, lo si può fare con quella che si ha a disposizione, anche se non è intonata o rauca, purché lo si faccia con gioia, con il gusto e il piacere di cantare, cioè di rilassarsi, di ridere, di essere sereni.

La dottoressa Lauren Stewart, capo ricercatrice presso il Dipartimento di Musica, Mente e Cervello della facoltà di Psicologia dell’Università di Londra ha dimostrato l’efficacia del canto su persone affette da disturbi emotivi e comunque su persone con problemi seri di salute. Che non sia difficile immaginare che tra canto e salute ci possa essere una relazione stretta, questo è chiaro, più difficile dimostrare scientificamente il perché, ma i risultati ci sono. Lasciamo parlare direttamente la dottoressa Stewart: “La ricerca scientifica ha accertato che la gratificazione è sempre associata a trasformazioni positive sia delle funzioni psicologiche sia di quelle fisiche. Abbiamo quindi pensato che fosse importante compiere un’indagine approfondita su questo fenomeno. Cantare costringe ad effettuare una respirazione profonda, che serve per ottenere una buona presa di fiato, tra un verso e l’altro del testo da cantare. Tutto questo si traduce in un vero e proprio esercizio respiratorio, che migliora la funzionalità polmonare e l’ossigenazione del sangue. A questo miglioramento corrisponde un abbassamento dei livelli massimi di pressione sanguigna, che si assestano su valori più bassi. Inoltre, esercitarsi nel canto distrae, cioè aiuta la mente a spostare l’attenzione dall’evento stressante e consente d’interrompere la catena dello stress. E’ un altro risultato fondamentale per il benessere psicologico. Infatti, cantare aiuta a cambiare positivamente la produzione di ormoni che influiscono sul nostro umore, cioè la dopamina e la serotonina. Nel cervello di chi canta si attiva la produzione di questi due ormoni che, a loro volta, annullano l’azione del cortisolo, l’ormone dello stress. In questa lotta tra ormoni vincono così quelli del benessere e il risultato finale di queste trasformazioni è quello per cui, dopo aver cantato, si ottiene un umore migliore e un maggiore senso di rilassatezza”.

Ma non è finita qui, perché gli effetti benefici si fanno sentire anche sulla memoria e su altre funzioni cerebrali. Innanzitutto, va precisato che imparare le parole e la melodia a memoria è un esercizio mentale efficace. Più canzoni conosciamo e cantiamo e maggiori sono i benefici che ne ricaviamo. Poi, oltre alla memoria, si fa un esercizio di linguaggio, nel senso che apprendiamo e apprezziamo le immagini, le metafore e la musica delle parole e delle frasi che compongono un testo poetico. Se si tratta di un testo in lingua straniera, meglio, perché l’esercizio è ancora più interessante. La dottoressa Lauren Stewart ha potuto constatare che le persone colpite da malattie serie come ictus e infarto e che hanno subìto danni nella parte del cervello legata al linguaggio, con il canto hanno recuperato la capacità di parlare.

Restano da precisare ancora un paio di cosette: quanto tempo bisogna cantare perché si ottengano i benefici sperati e come cantare. In genere, non meno di 20 minuti al giorno, anche se non esiste un limite massimo. Per quanto riguarda il “come”, meglio sarebbe a voce piena, ma se si canta a mezza voce, va bene lo stesso. Infine, intonati o no, basta cantare, con passione e con gioia. Se, invece, il canto è uno sforzo o una simulazione, ebbene, non vale. Le cose fatte a forza, senza convinzione né passione, non danno nessun risultato, che si tratti di canto o di qualsiasi altra attività.


lunedì 25 febbraio 2013

Conferenza stampa di presentazione della 9a edizione di Model Expo Italy


Mercoledì 27 febbraio c.m., nel Palazzo Uffici di Veronafiere in Viale del Lavoro 8, è in programma, alle ore 11.00, la conferenza stampa di presentazione della 9a edizione di Model Expo Italy (2-3 marzo prossimi, in contemporanea con la 48a edizione di Elettroexpo).


Alla conferenza stampa, ospitata nella sala Cda al 5° piano, intervengono: - Damiano Berzacola, vicepresidente vicario di Veronafiere,

- Elena Amadini, vicedirettore commerciale di Veronafiere,

 - Giuseppe Scardova, presidente Compagnia modellisti ferroviari Verona

 - Luciano Albieri, presidente Gruppo modellistico veronese
 - Oscar Fanna, rappresentante dell’associazione Clv brick team Lego Servizio Stampa Veronafiere Tel.: +39.045.829.82.42 – 82.85 -83.14-82.90 pressoffice@veronafiere.it


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domenica 24 febbraio 2013

"SCIENZA FAI DA TE": INTERVISTA A LIZ BONNIN, PRESENTATRICE DEL PROGRAMMA

Pubblichiamo l'intervista presentata da Gravità Zero a Liz Bonnin, conduttrice del celebre programma "Scienza fai da te" in onda su BBC Knowledge - Canale 332 del Digitale Terrestre Mediaset Premium  (qui la programmazione).
La dottoressa Liz Bonnin, conduttrice del programma
Liz è diventata famosa presentando programmi di vario genere nel Regno Unito, come Science Friction e Wild Trials.

È laureata in conservazione delle specie animali e lavora come volontaria alla Società zoologica di Londra (ZSL).

Scienza Fai Da Te affronta diversi aspetti della scienza e li esamina da angolazioni diverse e per certi versi inaspettate. Quale approccio ha catturato di più la tua attenzione e quale hai ritenuto più efficace?
Nonostante Scienza Fai Da Te affronti argomenti anche molto differenti tra loro, il nostro approccio è sempre stato quello di approfondire minuziosamente l'argomento e rivelarne gli aspetti scientifici più emozionanti, sia quando si cerca di capire in che modo le nubi di cenere prodotte durante l’eruzione del vulcano Eyjafjallajökull hanno aggredito lo spazio aereo europeo nel 2010, sia quando  si indaga come la ricerca sul quorum sensing tra i batteri è in grado di offrire un'alternativa agli antibiotici nella lotta contro le infezioni. Jem tende a spingere i confini degli argomenti trattati, tanto da essere in grado perfino di realizzare la sua versione di un cannone a vortice; la premessa è che il mondo intorno a noi è ricco di processi e fenomeni incredibili, e la scienza può spiegarli.
Il nostro compito è quello di rivelare gli aspetti scientifici che si celano dietro ai problemi che ci riguardano e, così facendo, speriamo di riaccendere la curiosità della gente nei confronti del mondo in cui vive.

sabato 16 febbraio 2013

INTERNET-DIPENDENZA: aumenta rischio depressione nei soggetti Internet Addicted

I ricercatori dell’Università degli Studi di Milano e della Swansea University (UK) hanno esplorato un campo attualmente ancora poco conosciuto, quello della dipendenza da Internet. Nel lavoro pubblicato su Plos One sono stati evidenziati gli effetti dell’esposizione a Internet nel breve periodo su giovani soggetti affetti da Internet dipendenza, riscontrando una riduzione del tono dell’umore.

Lo studio, condotto da Roberto Truzoli e Michela Romano presso l’Università di Milano e a da Phil Reed e Lisa A. Osborne della Swansea University, ha esaminato l'impatto immediato dell’esposizione a Internet sugli stati psicologici e sull’umore di persone dipendenti da Internet e su utenti di Internet non dipendenti, con un’età media di 24 anni. I 60 partecipanti hanno svolto una batteria di test psicologici per esplorare i livelli di dipendenza da Internet, l’umore, l’ansia, la depressione, la schizotipia e i tratti di autismo. Quindi i partecipanti hanno utilizzato liberamente Internet per 15 minuti e successivamente sono stati nuovamente valutati per l'ansia e l'umore.

Un primo risultato dello studio è le persone dipendenti da Internet hanno evidenziato una marcata riduzione del tono dell’umore subito dopo aver smesso di utilizzare Internet rispetto ai partecipanti non dipendenti, rilevando un evidente impatto negativo sull’umore.
L'impatto negativo immediato sull’umore delle persone dipendenti può contribuire all'aumento dell’uso di Internet da parte di questi individui che cercano di modificare il loro umore impegnandosi ulteriormente nell'utilizzo di Internet, rafforzando così la spirale di dipendenza. Questo fenomeno suggerisce un possibile meccanismo di mantenimento del comportamento di dipendenza da Internet.
“Il principale dato nuovo del nostro studio è l’evidenziazione di cosa succede all’umore di coloro che sono dipendenti appena smettono di navigare -commenta il Dott. Roberto Truzoli, psicologo clinico del Centro Trattamento Disturbi Depressivi dell’Unità Operativa Psichiatria II (Direttore Prof.ssa Gabriella Ba), Dipartimento di Scienze Biomediche e Cliniche “L. Sacco” - Università degli Studi di Milano.
“C’è evidenza - aggiunge il Prof. Phil Reed- che in rete ci sono alcune brutte sorprese in agguato per il benessere delle persone”.

In secondo luogo si è osservato che la dipendenza da Internet può essere associata con depressione pregressa, anticonformismo impulsivo e tratti di autismo.
“Si conferma che le persone con pregressi disturbi dell’umore e d’ansia possono essere a rischio di uso eccessivo di Internet. La rilevazione di tratti autistici però è una evidenza nuova potenzialmente interessante, ma le ragioni di questa associazione sono attualmente poco chiare e richiederanno nuove ricerche” – commenta il Dott. Roberto Truzoli.

Romano M, Osborne LA, Truzoli R, Reed P (2013)
Differential Psychological Impact of Internet Exposure on Internet Addicts.
PLoS ONE 8(2): e55162. doi:10.1371/journal.pone.0055162
http://dx.plos.org/10.1371/journal.pone.0055162

Per informazioni:
Dott. Roberto Truzoli
Dipartimento di Scienze Biomediche e Cliniche “L. Sacco” - Università degli Studi di Milano
U.O. Psichiatria II - A.O. Polo Universitario “L. Sacco”
tel. 02.39043153 - 02.50319729
email: roberto.truzoli@unimi. it

martedì 12 febbraio 2013

CORSO DI AGOPUNTURA: INTERVISTA AL DOTTOR MAURO CUCCI

Abbiamo intervistato il Dr Mauro Cucci, direttore dell'Istituto Superiore di Agopuntura, ente di formazione per medici e farmacisti (qui la sua storia).
Dr Cucci, lei che è il fondatore dell'ISA, quali motivi l'hanno spinta a portare questa disciplina millenaria in Italia? 
A quel tempo eravamo un gruppo di medici, docenti e studiosi di questa disciplina, che, pur provenienti esperienze diverse, lavoravamo insieme da qualche anno sotto una gestione diversa. Non eravamo soddisfatti e, dopo quale tentativo di evoluzione interna abbiamo deciso di fare da soli. Già a quell’epoca, e oggi più che mai, le Scuole di Agopuntura in Italia sono parecchie.
Crede davvero che nel panorama formativo italiano ci sia spazio e necessità di un Istituto come il vostro? 
La maggior parte delle scuole di Agopuntura in Italia e nel mondo sono legate ad una didattica ancora troppo legata al Simbolismo cinese, che presenta un modello valido da millenni, ma si esprime con un gergo che è troppo lontano dal retro-terra culturale del medico occidentale e quindi risulta incomprensibile. Da prendere come un atto di fede e che si presta alle critiche di non scientificità che fanno la fortuna dei suoi detrattori. L’Agopuntura invece è una disciplina che, se opportunamente decodificata, può essere perfettamente integrata con la scienza occidentale, senza perdere alcunché della propria millenaria validità. 
E’ proprio questa consapevolezza, assieme alla competenza in questa disciplina di “traduzione” che ci ha reso consapevoli dell’esistenza di uno spazio per noi nel panorama formativo italiano
Siete gli unici, in Italia a proporre questo approccio?
No, e, onestamente, non siamo neanche stati i primi. L’Energetica dei Sistemi Viventi, questo è il nome della disciplina, è insegnata anche in altre scuole. Il gruppo di docenti che ha fondato il nostro Istituto, dopo aver maturato molte esperienze con l’Agopuntura Tradizionale, si è conosciuto in una scuola di ESV. Il problema è che queste scuole spesso dimenticano le origini e i presupposti dell’Agopuntura, che sono poi le fondamenta del modello culturale. Così facendo la trasformano in qualcosa di meccanicistico la impoveriscono e fanno esattamente il contrario dello scopo per cui la ESV è stata elaborata: sfruttarne al massimo le potenzialità. La nostra didattica ha invece l’ambizione di rispettare al massimo il Corpus Dottrinale Tradizionale, dando però ai discenti la possibilità di capirne la logica scientifica che sta alla base di un gergo tanto simbolico.
Perché un medico moderno dovrebbe essere interessato allo studio dell’Agopuntura? 
Indipendentemente dal fatto che poi la pratichi o meno, l’Agopuntura obbliga il medico a riscoprire un approccio globale, olistico, alla salute dei propri pazienti, che troppo spesso viene emarginato, e, quasi sempre, proprio ignorato, nella formane universitaria moderna. Dopo anni di super specializzazione e di protocolli terapeutici standardizzati, la ricerca medica attuale sta riscoprendo l’unicità dell’individuo e l’estrema importanza della integrazione con l’ambiente. Questi contributi però fanno ancora molta fatica ad entrare nei programmi universitari. Per l’Agopuntura invece questo è un approccio obbligato. Per essere buoni agopuntori ogni essere umano deve essere inteso un’entità unica immersa nel suo ambiente e come tale va sempre considerato. Nella salute e nella malattia. Questo è l’arricchimento generale per un medico che si avvicina all’Agopuntura. Poi c’è indiscutibilmente un aspetto più pratico: L’acquisizione di uno strumento complementare alla medicina convenzionale che arricchisce il professionista di una serie di competenze maggiori e sempre più efficaci.
Quali prospettive professionali si aprono per il medico diplomato presso il vostro Istituto? 
Purtroppo al momento le maggiori possibilità professionali sono ancora confinate nell’ambito dell’attività privata, che però offre attualmente ottime possibilità di soddisfazione. L’opportunità di lavorare in ambito pubblico o convenzionato sono ancora marginali. Recentemente però si stanno aprendo sempre più spazi in questo settore, anche in virtù di qualche movimento legislativo e istituzionale, che sembra aprire nuove strade al riconoscimento ufficiale all’Agopuntura
La maggior parte delle scuole italiane propone un corso triennale. Per quale ragione voi ne promuovete uno biennale? 
Abbiamo sempre ritenuto che fosse l’offerta formativa ad influenzare i monte-ore e non viceversa. Noi riteniamo che sia possibile proporre un prodotto di estrema qualità, che vada ben oltre i requisiti minimi e permetta al discente di acquisire una competenza più che sufficiente per lavorare in autonomia tramite le ore, teorico-pratiche e online, che abbiamo suddiviso in due anni. Attualmente le uniche richieste di monte-ore standardizzate provengono dagli Ordini Professionali Provinciali e, la maggior parte di queste, vengono soddisfatte dal nostro monte-ore proposto. Consci però del fatto che alcuni Ordini chiedono a triennalità, abbiamo predisposto un terzo anno, opzionale, per coloro che, intendendo iscriversi al Registro dei Medici Agopuntori della propria Provincia, se questo richiede, come criterio di ammissione, la triennalità.
Quello che proponete è un percorso impegnativo? 
Molto. Occorre una forte motivazione e uno sforzo intellettuale notevole. La soddisfazione e le possibilità di migliorare la propria qualità professionali sono, a risultato raggiunto, decisamente grandi.

Contatti: 
L'istituto Superiore di Agopuntura ha una pagina web: www.isagopuntura.org
Una pagina Facebook  e un canale su TWITTER  
Tel. - Fax: 02 37648561 - lun-ven, 16:00-18:00

mercoledì 6 febbraio 2013

Il Politecnico di Milano pubblica il report dell'Osservatorio Risk Management nelle PMI italiane


L'Osservatorio Risk Management nelle PMI italiane è realizzato dal Dipartimento di Ingegneria Gestionale del Politecnico di Milano nell'ambito delle attività della Cattedra Cineas di Global Risk Management, in collaborazione con the FinC - the Finance Centre e con CONFAPI Industria.


Campione: 427 PMI italiane distribuite su tutto il territorio nazionale ed appartenenti a tutti i settori dell’economia. 
Il report completo è scaricabile da http://www.risk-governance.eu


La ricerca si è focalizzata su quattro aree principali:

1) L’approccio alla gestione del rischio
Un primo risultato evidenzia come una buona parte (53%) delle imprese percepisca correttamente il rischio non solo come fonte di minaccia, ma anche come fonte di opportunità, superando la vecchia concezione, molto diffusa fino a pochi anni fa anche nelle grandi imprese, secondo la quale i rischi presentano solo aspetti negativi che incidono negativamente sui risultati dell’impresa.

Se anche le grandi imprese stentano a spostare la loro cultura del rischio verso il dualismo minaccia-opportunità, una tale inattesa maturità da parte di imprese di piccole e medie dimensioni rappresenta un segnale molto positivo.
Coerentemente ad un atteggiamento maturo verso il concetto di rischio, un terzo (33%) delle PMI intervistate adotta un approccio proattivo verso la gestione del rischio. Tale percentuale aumenta al 45% se si considera il sottoinsieme delle imprese che hanno dichiarato di percepire il rischio come un’opportunità.



2) Il processo di risk management 
Per quanto concerne l’esposizione alle diverse tipologie di rischi, il rischio finanziario viene percepito come l’area più critica (48% delle aziende), seguito da quello operativo (35%); le stesse categorie di rischio, operativo e finanziario, sono anche quelle che assorbono maggiori risorse, secondo il 46% e il 41% degli intervistati. 
Più in particolare prevalgono, tra i rischi strategici, il rischio di controparte e il rischio di concentrazione, considerati rispettivamente dal 49% e dal 51% degli intervistati, il rischio di credito (60%) tra i finanziari e il rischio connesso ai processi (53%) tra gli operativi.



3) L’evoluzione del profilo di rischio
Oggi il 17% degli intervistati ritiene di avere un profilo di rischio alto, il 58% medio e il 25% basso. L’incidenza delle imprese che negli ultimi 5 anni hanno visto aumentare il loro profilo è elevata (35%), così come quella che prevede un aumento nei prossimi anni (25%), mentre solo un modesto 5% ritiene che il profilo di rischio potrà ridursi nel prossimo futuro.
La consapevolezza che, nello scenario attuale, non sia possibile rimanere competitivi sul mercato e contemporaneamente ridurre il profilo di rischio dell’impresa, si riflette anche sulle risorse investite nella gestione dei rischi: praticamente nessuna delle aziende intervistate prevede di ridurre il proprio profilo di rischio nei prossimi tre anni, e tra quelle che prevedono un aumento del profilo di rischio, ben il 57% dichiara che gli investimenti in risk management cresceranno nei prossimi anni. 



Incrociando le informazioni sulla dinamica del profilo di rischio con quelle sulle operazioni effettuate negli ultimi tre anni, si è potuto verificare che ad un profilo di rischio in crescita è spesso associata l’entrata in nuovi mercati, l’operazione straordinaria di gran lunga più diffusa, che interessa ben il 59% delle imprese del campione, confermando la forte spinta all’internazionalizzazione delle piccole e medie imprese italiane.


Andando ad analizzare le tecniche e gli strumenti che le PMI adottano per la valutazione dei rischi, si può notare come la maturità in termini di percezione del rischio stenti a confermarsi quando si viene alla verifica operativa della sua gestione.
Sono poche le imprese che si sono dotate di procedure formali e standardizzate per le diverse fasi che compongono il processo di risk management (identificazione, stima, trattamento, monitoraggio e reporting): l’82% delle imprese formalizza meno di tre fasi su cinque, e solo il 3% le formalizza tutte; altrettanto poche sono quelle che, indipendentemente dalle tecniche adottate, misurano la probabilità di accadimento (37%), mentre il 63% considera gli impatti finanziari dei rischi cui è esposto.



In quanto alle modalità di trattamento dei rischi identificati, un dato tra tutti evidenzia una generale impreparazione delle PMI ad affrontare le nuove sfide offerte dal business: tra le imprese che realizzano tra il 25% e il 75% del proprio fatturato in valuta diversa dall’Euro, il 79% non tiene in considerazione il rischio di cambio e non adotta alcun tipo di copertura; sorprendentemente, è ancora maggiore (91%) l’incidenza delle aziende che non tengono in considerazione il tasso di cambio tra quelle che realizzano più del 75% del fatturato in valuta diversa dall’Euro.


Il monitoraggio avviene nella maggior parte dei casi una o due volte l’anno (31% e 36%); in qualche circostanza anche trimestralmente (nel 20% dei casi). Più rare sono situazioni di monitoraggio molto frequente, in cui viene effettuato almeno una volta al mese e probabilmente riconducibili a situazioni di emergenza che le imprese si sono trovate ad affrontare, in seguito all’assunzione di una eccessiva esposizione al rischio. Per monitorare la performance/esposizione, la maggior parte degli intervistati fa uso del risultato operativo e del risultato della gestione ordinaria (rispettivamente 37% e 28%). Poco utilizzate sono misure come l’EVA, il VaR, il RAROC, la volatilità degli utili e altre misure risk-adjusted, e ciò è in linea con le aspettative secondo le quali le PMI, in virtù della ridotta dimensione e quindi della limitatezza delle risorse, non adottano strumenti particolarmente sofisticati come potrebbero essere, appunto, delle misure di performance aggiustate per il rischio.


Per quanto riguarda i ruoli e le responsabilità in termini di gestione del rischio, solo l’1% delle imprese intervistate dedica una risorsa ad attività di risk management a tempo pieno; l’11% delle imprese affida il compito a consulenti esterni, mentre nella grande maggioranza dei casi (88%) il compito è assolto da una figura interna che ricopre altri ruoli e che dedica parte del suo tempo alla gestione del rischio. Tale figura interna è prevalentemente l’Amministratore (58%) e, più di rado, il Direttore Finanziario (26%) o una figura che riporta a lui (8%).


Il Consiglio di Amministrazione, quando è coinvolto nel risk management, ne definisce la strategia (43% dei casi), ma nel 28% delle imprese esso non è coinvolto in alcun modo. Tuttavia, segmentando le aziende per il numero di anni da cui hanno intrapreso attività di risk management, si nota come il CdA sia coinvolto nella quasi totalità di quelle più mature (98% tra quelle che adottano tecniche di risk management da più di 5 anni, 100% tra quelle che le adottano da più di 10 anni).



4) La cultura del rischio, comunicazione e formazione. 
Infine, si è voluto analizzare quanto la cultura del rischio sia diffusa all’interno dell’azienda attraverso iniziative specifiche di formazione e divulgazione: quasi nessuna azienda prevede iniziative di questo tipo rivolte a tutti i dipendenti, ma solo al top management (per il quale sono previsti corsi formazione ad hoc nel 17% dei casi, seminari nel 16% e workshop nel 19% dei casi) e ai responsabili della gestione del rischio (per il quale sono previsti corsi formazione ad hoc nel 23% dei casi, seminari nel 15% e workshop nel 20% dei casi).
Il 17% delle aziende dichiara di avere in programma per il futuro iniziative rivolte a tutti i dipendenti, il 32% iniziative rivolte solo al top management e 31% rivolte ai responsabili per la gestione del rischio.
D’altra parte, ciò è coerente con il fatto che, nella maggior parte dei casi, anche la comunicazione interna sui rischi non riguarda tutti i dipendenti, ma solo i diretti interessati (78% degli intervistati).




Il report completo è scaricabile da http://www.risk-governance.eu


Per maggiori informazioni: riskmanagement@polimi.it